Non c’è esposizione del buddhismo che non menzioni il Milindapanha, opera composta nel I secolo a.C. circa, che narra una discussione i cui interlocutori sono il re indo-greco Menandro e il monaco buddhista Nagasena. L’importanza di questo testo all’interno della letteratura extracanonica del buddhismo del Piccolo Veicolo è fondamentale. Il Milindapanha infatti fa parte di quel grande tentativo di canonizzazione della dottrina buddhista attuato dopo il III Concilio di Pataliputra e la nascita di numerose correnti all’interno del Sangha. I punti discussi dai due interlocutori toccano i nodi centrali del buddhismo, che hanno dato luogo a una serie lunghissima di interpretazioni da parte delle vaie scuole. Infatti si spazia dal problema dell’anatta –se nell’uomo ci sia o no un ‘sé’ che permane- a quello dell’attività del karma, delle determinazioni del nirvana, della realtà dei dharma, della moralità, eccetera. Questa traduzione dall’originale Pali comprende i primi tre libri dei sette che compongono l’opera. Sono i libri più interessanti non solo per i libri trattati ma anche per la bellezza e la varietà degli esempi e delle argomentazioni esposte dai due protagonisti. L’interesse dell’opera è anche nella scelta di questi protagonisti: il re Milinda, indianizzazione del greco Menandro, che rappresentò il potere dei re ellenistici alla sua massima espansione in India, e la dottrina buddhista rappresentata dal monaco Nagasena: un potente re straniero e il pensiero della popolazione da lui conquistata.
Un pensiero così elevato, raffinato e complesso come quello buddhista non poteva non affascinare un uomo che, pur provenendo da una cultura diversa, cercava di conoscere quella dei territori da lui conquistati per confutarla. Ma non ci riuscì, fu vinto dalla profondità del pensiero buddhista.