Secondo una tradizione, il Buddha fece girare la ruota del Dharma non una, ma tre volte, a ogni giro comunicando dottrine via via più ardue e profonde. Il terzo ciclo di insegnamenti, il più esoterico, venne dato dal Buddha nel grande santuario di Dhanyakataka, nell’India meridionale, e codificato in un gruppo di testi chiamati Tantra, che sono il fondamento del Vajrayana, il Veicolo del Diamante. Vuole la leggenda che n tale occasione Sucandra, re di Sambhala, un favoloso regno del Nord, abbia ricevuto il Kalacakratantra, “il Tantra della Ruota del Tempo”. La dottrina del Kalacakra e i suoi testi sarebbero stati conservati e tramandati senza interruzione dai re Sacerdoti di Sambhala, e soltanto all’inizio del secondo millennio sarebbero riapparsi in India, per scomparire nuovamente poco dopo in seguito alle devastazioni operate dai musulmani. Grazie al grande santo indiano Naropa (956-1040), la tradizione continuò invece in Tibet e dura tuttora. Naropa scrisse un fondamentale commento al Sekoddesa (il “Riassunto dell’iniziazione”), l’unico capitolo superstite del Kalacakratantra originario. Raniero Gnoli e Giacomella Orofino, confrontando il testo dell’originale sanscrito con antiche fonti manoscritte sinora trascurate e con la traduzione tibetano, ne hanno dato la prima versione in una lingua occidentale e l’hanno integrata con estratti da altri due commenti al “Riassunto dell’iniziazione” di Sadhuputra Sridharananda e di un autore anonimo.
Secondo la dottrina del Vajrayana, “quelle stesse azioni riprovevoli, attraverso le quali le creature sono legate, sono per esse fonte di liberazione dalla trasmigrazione, se eseguite col metodo appropriato. La gente del mondo è legata dalla passione e per virtù di questa stessa passione è liberata”. Già in precedenza Nagarjuna aveva affermato che esistenza fenomenica e nirvana non esistono come cose separate e che “il nirvana può essere definito come la conoscenza perfetta dell’esistenza fenomenica”. In questa prospettiva il mondo, o meglio la sua esperienza, diviene luogo e strumento di liberazione: non più vincolo a cui sottrarsi, cosa da rifuggire, bensì la vile eppur preziosa materia prima di un processo alchemico che mira a trasmutarlo in nirvana.
Nel Kalacakra e nel tantrismo buddhista in generale, la pratica sin articola in due momenti fondamentali, chiamati processo di generazione e processo di adempimento. Nel primo lo yogin, per mezzo di elaborate visualizzazioni, trasforma il mondo in un mandala e identifica se stesso con la divinità prescelta, espressione della natura illuminata, abbandonando così il modo ordinario di vedere se stesso e il mondo. Nel secondo, lo yogin opera sui soffi vitali e la loro circolazione del corpo, e porta a compimento nella realtà quanto nella prima fase è stato creato con il pensiero. Una parte importante hanno qui le pratiche sessuali, che consentono di accedere a quel “piacere immoto” e sommo che si identifica con il nirvana stesso e di cui il piacere ordinario è solo un pallido riflesso: “Colui che non è riuscito a ottenere il piacere che non fluisce via, cerca infelice un piacere che fluisce via”.