Khenrab Rimpoce al Vesak 2010
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Interdipendenza e non violenza. Qui di seguito pubblichiamo l'intervento di Lama Khenrab Rimpoce, nostra Guida spirituale e Lama residente dell'Istituto Ghe Pel Ling di Milano, tenuto a MIlano nell'ambito della Festa del Vesak 2010. |
Come sapete, stiamo festeggiando il Vesak, che è una festa importante soprattutto per i praticanti del sentiero Buddhadharma, i buddhisti. È importante perché è un momento straordinario, che coincide con quello in cui Shakyamuni Buddha ha compiuto le Tre Azioni. Questa è la ragione principale per cui si celebra questa festa ed è anche il motivo in più per praticare l'insegnamento, coltivando la pratica spirituale per accumulare la forza di virtù e meriti, così come per purificare le negatività. Proprio a causa della particolarità di questo momento, è maggiore la forza delle azioni che vengono compiute, sia che siano azioni positive o negative. E maggiore è anche il loro effetto. Tutto ciò è dovuto a questo particolare momento. Pertanto, i festeggiamenti del Vesak non sono solo un'occasione per ricordare le Tre Azioni di Buddha, ma dovrebbero essere colti come un'opportunità per praticare, anche se, in generale, è sempre molto importante, nella vita quotidiana, giorno per giorno, vivere con la consapevolezza di ciò che si fa, di ciò che si pensa. Dovremmo, quindi, fare sempre attenzione nella vita quotidiana, cogliendo questo momento speciale come un'occasione in più per praticare ancora meglio. Poco fa, il Venerabile Dhammika ci ha parlato concisamente in maniera molto chiara della vita di Shakyamuni Buddha, quindi io entro subito nell'argomento nel tema del Vesak, che riguarda l'interdipendenza e l'integrazione anche se preferirei usare i termini “sorgere dipendente e comportamento non-violento.” Non sono il massimo esperto su questo tema, ma provo a dire qualcosa in merito. Quando si fa un'introduzione generale al Buddhismo, si inizia sempre da Shakyamuni Buddha, il quale il quindicesimo giorno del quarto mese lunare divenne completamente illuminato e dopo sette settimane a Sarnath, presso Varanasi, parlò per la prima volta, trasmettendo l'insegnamento che oggi è chiamato “Quattro Nobili Verità”. Queste contengono esattamente il tema del sorgere dipendente, perché, se le esaminiamo, vediamo che Shakyamuni Buddha ha parlato proprio del sorgere dipendente di tipo relazione di causa ed effetto. Infatti, il sorgere dipendente ha diversi aspetti, uno dei quali è proprio il principio della relazione di causa ed effetto, contenuto nel discorso sulla Quattro Nobili Verità. Un altro argomento con il quale il sorgere dipendente ha una forte relazione, legame è il concetto di vacuità o vuoto di sé. In altre parole, il sorgere dipendente e il vuoto di sé sono due facce della stessa medaglia. Da una parte abbiamo il sorgere dipendente e dall'altra il vuoto di sé o la vacuità. Quindi, quando parliamo di sorgere dipendente, automaticamente, naturalmente bisogna parlare di vacuità o vuoto di sé e in relazione a ciò abbiamo quattro scuole buddhiste[1], ognuna delle quali spiega, illustra il concetto di vacuità, dandone una sua interpretazione. Facendo riferimento alla quarta, ultima scuola, la Prasanghika-Madhyamika, la Via di Mezzo della logica consequenziale, questa dice della mancanza del sé: “è la realtà, la natura di tutte le cose. Essa non cambia dal punto di vista della mancanza di sé, ciò che cambia è l'oggetto di riferimento”. Pertanto, si può parlare della natura della vacuità facendo riferimento alla persona - e qui dovremo dire “mancanza del sé della persona” - così come possiamo parlare della natura della vacuità facendo riferimento alle cose, ai fenomeni e questa volta dovremo parlare di “mancanza del sé dei fenomeni.” In altre parole, la mancanza del sé è la natura ultima della persona ed è anche la natura ultima dei fenomeni, delle cose. Come ho detto, il concetto di mancanza del sé è interpretato in modo differente dalle varie scuole. Poiché non abbiamo qui la possibilità di parlare in dettaglio di tutte e quattro le scuole, facciamo riferimento solo alla Prasanghika Madhyamika, la Scuola della Via di Mezzo della Logica Consequenziale. Secondo questa scuola, c'è la persona e ci sono le cose (i fenomeni). La persona ha un proprio sé, un proprio io, così come anche le cose hanno un loro sé. Noi abbiamo la percezione di un nostro sé come se esistesse dalla propria parte, in modo autonomo, indipendente: questo si chiama “oggetto della negazione”, perché nella realtà non esiste. Quello che esiste è un semplice nominare “io” sulla base degli aggregati[2]. C'è una base, che sono gli aggregati, poi abbiamo il nome “io” e questo viene nominato ad una base, uno di cinque aggregati. Per cui, se andiamo a cercare questo io, non lo si trova. Questa si chiama “mancanza del sé”, dell'io. Allo stesso modo, per quanto riguarda quella base -che sono gli aggregati - sulla quale viene nominato il nome io, se andiamo a cercare gli aggregati, anche questi non si trovano. Per cui anch'essi, a loro volta sono semplicemente nominati dipendendo ancora una volta da una base. Questo processo va avanti all'infinito senza mai trovare niente. Questo si chiama “mancanza del sé dei fenomeni”. Quindi alla fine abbiamo in sostanza la mancanza del sé (dell'io, della persona) e mancanza del sé dei fenomeni. Queste non sono semplicemente teorie filosofiche, ma concetti da comprendere, facendone esperienza interiormente tramite la meditazione, arrivando a realizzarli. Quindi, quando iniziamo a praticare la meditazione sulla visione di vacuità, della mancanza di sé della persona e dei fenomeni, c'è un ordine, che viene illustrato dal Pandit indiano Chandrakirti[3], che spiega come l'individuo sperimenti il proprio io nella vita quotidiana. La prima cosa che percepisce un individuo ordinario nella vita quotidiana è il proprio io, quindi va ad aggrapparsi a questo io. C'è dunque l'apparenza di un io, del proprio io e a questo io apparso ci si va ad aggrappare. Questo si chiama “io” e come conseguenza di aggrapparsi all'io, successivamente sorge “il mio”. Queste sono le due cause fondamentali per cui ogni individuo produce molteplici fonti di sofferenza. Tutto parte da “io” e “mio”, per cui bisogna prima realizzare la mancanza del sé dell'io, perché questo “io” è qualcosa che ognuno vive quotidianamente e ci è sempre familiare, vicino. Per questo motivo, bisogna prima meditare sulla mancanza del sé dell'io e successivamente sugli aggregati, fenomeni. Per quale importanza, per quale motivo dovremmo meditare su questa visione della saggezza della visione di vacuità dell'io e dei fenomeni? Che importanza ha? È estremamente importante perché è questo l'antidoto diretto contro la causa radice, che produce sofferenza nella nostra esistenza. Quale sarebbe la causa radice, quella causa principale che produce sofferenza nella nostra esistenza? È proprio l'aggrapparsi all'apparenza del proprio io. Possiamo parlare di “aggrapparsi al sé”, così come di “aggrapparsi all'io”: sono sinonimi. Questo aggrapparsi al sé, all'io, diventa la causa base, radice, per cui ognuno produce enorme sofferenza nella propria esistenza. Occorre dunque rimuovere questa causa principale e per far ciò bisogna applicare il suo antidoto opponente, che è realizzare la mancanza del sé. La ragione per cui questo aggrapparsi all'io, al sé, è la causa principale è spiegata con questa sequenza: si soffre perché si hanno delle afflizioni mentali - più frequentemente attaccamento o odio - e attaccamento o odio hanno inizio dall'aggrapparsi all'io. Quindi, come vediamo, prima sorge questo aggrapparsi all'io, al sé, poi successivamente potranno sorgere delle afflizioni mentali e, infine, si soffre. Pertanto, il primo passaggio fondamentale per noi è proprio sviluppare una piena conoscenza, una consapevolezza corretta di come ognuno di noi va ad aggrapparsi quotidianamente all'apparenza del proprio io. Seguite questa analisi. Quando qualcuno ci accusa direttamente di aver commesso un grave errore e punta contro di noi l’indice, al sentire questa accusa reagiamo guidati da una percezione dell’esistenza dell’io come se esistesse dalla parte propria, in modo autonomo, indipendente, così solido, concreto (quasi da poterlo afferrare), tale da essere danneggiato gravemente da questa accusa. Questa è la sensazione, l'esperienza che si vive in quel momento, nel quale il modo in cui appare il proprio io è di essere un io autosufficiente, autonomo, indipendente dagli aggregati, dalla base, da alcunché. Appare da solo, autonomamente. Questo è il modo in cui uno sperimenta il proprio io in una situazione come quella dell'esempio. Ora, proviamo a cercarlo: dov'è questo io? Dov'è quell'io apparso in modo tale da sentirci gravemente danneggiati dall'accusa? Se cercate di localizzarlo, di trovarlo, non lo troverete da nessuna parte: sparisce, non lo si trova. Quell'io autonomamente esistente non può essere trovato. Ciò nonostante, c'è sempre un essere, un sé che svolge delle attività, quindi sicuramente ci sarà un essere che continua a funzionare come tale e quell'essere sarà soltanto convenzionale, un sé esistente solo convenzionalmente. Significa quindi che c'è un sé, un io esistente soltanto come nome, dipendendo da una base, quindi un sé che funziona solo a livello convenzionale. Generalmente, nella nostra vita ordinaria, quotidiana, viviamo costantemente con la convinzione che l'io sia come un padrone e gli aggregati, il corpo, siano il suo oggetto di godimento. Questa è la nostra visione nella vita quotidiana e con questa visione andiamo avanti a fare la nostra vita, come se l'io esistesse da parte propria in modo autonomo, indipendente, un padrone che può decidere e usufruire degli aggregati e del corpo. Quando, ad esempio, uno si ammala, se la cura consiste nell'amputare le gambe, dice “taglio anche le gambe, pur di star bene”; se la cura consiste nel tagliare un braccio, il paziente dice “taglia pure il braccio purché io possa star bene”. In questa esperienza, la persona ha la convinzione che ci sia un io esistente da parte propria senza dipendere dagli aggregati e cioè dal braccio che viene tagliato, dalla gamba che viene tagliata. Non dipende da questi aggregati, ma esiste da parte propria e può usufruire, utilizzare gli aggregati come fossero oggetti da utilizzare. Ognuno di noi vive quotidianamente il proprio io rimanendo aggrappato all'apparenza del proprio io, che è apparso come se esistesse da parte propria in modo autonomo, indipendente, senza dipendere dalla base, dagli aggregati, da altri fenomeni. Questo si chiama “aggrapparsi al sé della persona”. Noi viviamo con questo tipo di visione nella vita quotidiana. Proprio perché continuiamo a vivere con questo tipo di visione, questa ci impedisce di vedere la vera realtà, la natura vera, la verità ultima di noi stessi. Ora, quando parliamo della realtà, della natura dei fenomeni, dobbiamo sapere a cosa facciamo riferimento. Se ad esempio ci riferiamo ai fenomeni prodotti, condizionati da causa, effetto e condizioni, la natura di questi è l'impermanenza; la loro natura vera e propria è quella di cambiare istante per istante. Questo è un tipo di natura e possiamo dire che ogni cosa ha una propria natura, ma sicuramente la vacuità è la natura ultima di tutte le cose. Per cui, noi siamo convinti di avere una visione corretta di noi stessi, ma non è assolutamente vero. In realtà, abbiamo una visione di noi stessi completamente sbagliata, non ci conosciamo, non conosciamo il nostro io, il nostro sé, perché la nostra mente è proprio impedita, ostruita da questa nostra visione errata, che impedisce alla mente stessa di vedere la vera natura di noi stessi, del nostro io. Poiché la nostra mente è impedita nel vedere la natura vera, ecco che talvolta possiamo arrabbiarci, possiamo avere desiderio, attaccamento. L'attaccamento e l'odio si manifestano perché non abbiamo una visione corretta della realtà dei fenomeni, per questo motivo è possibile arrabbiarsi, avere attaccamento. Questa è la ragione per cui l'individuo soffre. Un nostro grosso problema è l'ira, la collera, l'odio. Certamente, questi possono essere calmati con diverse tecniche e pratiche meditative, che però potranno solo calmare superficialmente, grossolanamente, ma non rimuovere dalla radice le afflizioni. Per poter rimuovere radicalmente la collera e l'odio, bisogna prima scoprire qual è la loro radice, la causa che li precede e che fa sì che ci si arrabbi. Scoprendone l'origine, bisognerebbe abbandonarla, così da rimuovere definitivamente la rabbia. Ad esempio, la pianta del peperoncino fa maturare il peperoncino, se prendiamo un peperoncino e lo morsichiamo, questo ci brucia la lingua. Potremmo dire “detesto il peperoncino” e buttarlo via, poi potremmo prendere un secondo peperoncino e gettare anche questo, e così via, ma, in realtà l'anno seguente i peperoncini cresceranno nuovamente, perché la pianta è rimasta, quindi per levare di mezzo il peperoncino definitivamente bisogna estirpare la pianta alla radice. Così, bisognerebbe esercitarsi, familiarizzarsi nella visione di vacuità, perché questa agisce come antidoto diretto contro la nostra ignoranza dell'aggrapparsi al sé. La nostra ignoranza di aggrapparsi al sé è la causa radice di tutte le nostre sofferenze. Anche la vacuità stessa, la natura della vacuità, non esiste da parte propria in modo autonomo ed indipendente. Ancora una volta, è un nome e questo nome deve essere nominato e per poter nominare abbiamo sempre bisogno di una base, quindi la vacuità ancora una volta fa parte del sorgere dipendente. Benché sia la natura ultima di tutte le cose, è sempre soggetta al sorgere dipendente. Quando allora parliamo di “sorgere dipendente” automaticamente viene “vacuità”, quando parliamo di “vacuità” automaticamente viene l'argomento del “sorgere dipendente”. Per cui, qualsiasi cosa esistente in questo universo, esiste sulla base del sorgere dipendente. Significa che non solo l'esistenza delle cose è un'esistenza possibile dipendendo da altre cose, ma che questo vale anche per la nostra stessa esistenza. Questa dipende da altre vite, da altri esseri. La nostra sopravvivenza dipende da altri. Gli altri sono estremamente gentili proprio perché ci consentono di continuare a vivere, quindi, poiché c'è questo rapporto di dipendenza costante, il nostro con loro è un rapporto di grande vicinanza. Gli esseri sono sempre vicini e gentili verso di noi. Quando finalmente avremo questa corretta visione, comprensione della nostra esistenza come costantemente dipendente da altre vite, da altri esseri senzienti, che ci sono naturalmente molto vicini e gentili, sorgerà naturalmente un comportamento non violento nei loro confronti. Ecco dunque che parlare del sorgere dipendente, introduce automaticamente l'argomento dell'importanza di assumere un comportamento, un condotta virtuosa, di gentilezza, non violenta. La pratica della non violenza, non si limita al non far niente, al non agire in alcun modo, al non far niente verso gli altri. Non è questa la non violenza, e non lo è il semplice non danneggiare: non è ancora la non violenza pura. Praticare la non violenza significa innanzitutto capire che cos'è la violenza, poi come nasce la violenza e infine, benché si sia potenzialmente capaci danneggiare, volutamente, intenzionalmente scegliere di non farlo. Tutto questo insieme, si chiama “pratica della non violenza.” Rimanendo sull'argomento della pratica della non violenza, facciamo un esempio, riferito all'abbandonare l'azione di uccidere. Semplicemente non uccidere non significa che si sta praticando l'azione, il voto di non uccidere, compiendo la pratica di non uccidere. Per poter compiere la vera pratica dell'azione di non uccidere – il voto di non uccidere – bisogna, come primo punto, capire che cos'è “uccidere”, capire la natura dell'azione di uccidere, gli effetti i risultati dell'azione di uccidere. Uccidere è un'azione non virtuosa, che produce degli effetti non virtuosi, negativi, che sono di differenti tipi. Il primo è chiamato “completamente maturato” e questo dipende dal peso del karma negativo stesso, per cui se il karma dell'azione di uccidere è molto pesante, anche questo primo risultato sarà molto pesante e potrebbe essere la sofferenza degli stati di migrazione inferiori, che sono di tre tipi. Dopo di che, abbiamo altri effetti, che sono effetti definiti “simili alla causa” che a loro volta sono di due tipi: simile alla causa di tipo “azione”, simile alla causa di tipo “esperienza”. Cosa significa? Simile alla causa di tipo azione vuol dire che, se in questa vita ci familiarizziamo con l'uccidere, questo produce l'effetto che nella prossima vita, sin dalla più giovane età abbiamo la predisposizione, il piacere, proviamo godimento nell'uccidere. In altri termini, subire questo effetto significa che si tende a ripetere la stessa azione nella vita prossima. L'altro aspetto, “simile alla causa dal punto di vista dell'effetto”, si riferisce all'effetto provocato quando abbiamo ucciso, che è quello di accorciare la vita di chi è morto, per cui nella prossima vita avremo noi stessi una vita breve. Questo è l'effetto simile alla causa dal punto di vista dell'effetto. Ogni azione produce questi tipi di cause, per cui, comprendendo tutto questo, la natura dell'azione e gli effetti, alla fine, una persona, anche se avesse la potenzialità di uccidere, sceglie volontariamente, volutamente, intenzionalmente, di non farlo. A questo punto si sta praticando l'azione di non uccidere. Come ho detto all'inizio, la nostra realtà è di tipo “sorgere dipendente” e se questa nostra realtà è di questo tipo, significa che la vita di ognuno va avanti grazie alla cooperazione, collaborazione diretta e indiretta di tutti gli altri innumerevoli esseri senzienti. Pertanto, direttamente e indirettamente, la nostra vita è anche dipendente dall'ambiente, dal mondo esterno e dai vari elementi che lo compongono. Scoprendo questa forte, costante relazione di dipendenza (“perché io possa continuare a vivere, è necessario che anche gli altri continuino a vivere, perché mi permettono di vivere”) possiamo capire quanto è importante abbandonare le azioni dannose verso gli altri esseri senzienti. La stessa cosa vale verso l'ambiente: noi viviamo nell'ambiente e siamo costantemente dipendenti da esso, quindi è evidentemente importante salvaguardarlo, proteggerlo. Quindi, è ugualmente necessario evitare di danneggiare l'ambiente. Secondo la visione del Sentiero Interiore (il Buddhismo) rispetto alla nostra esistenza, si parla del mondo esteriore e dell'ambiente come “contenitore”, e degli esseri viventi, senzienti, come “contenuto”. Contenitore e contenuto sono l'uno indispensabile all'altro. Non ce n’è uno più e uno meno importante. Il contenuto, gli esseri senzienti, per vivere hanno bisogno del contenitore, se non ci fosse questo, dove potrebbe vivere il contenuto, cioè gli esseri senzienti? Noi vogliamo vivere una vita lunga, con poche malattie, felici, ma dove possiamo vivere così? Dovremo vivere in questo mondo e se vogliamo vivere felicemente, con poche malattie in questo mondo, ciò significa che esso deve essere in una condizione favorevole per vivere così. In altre parole, l'ambiente deve avere delle caratteristiche positive, energia positiva. Esiste quindi una forte relazione fra noi esseri senzienti e l'ambiente. Generalmente, nella vita ordinaria, si tende a pensare alla vita e all'ambiente come se non ci fosse alcuna relazione fra loro, come se l'ambiente fosse qualcosa di molto lontano da noi stessi. Come se non dovessimo preoccuparci di esso. Invece, la relazione è sempre costante, ogni giorno, quindi, se vogliamo vivere sani, con poche malattie, una vita lunga, la condizione, l'ambiente, il luogo dove viviamo ogni giorno deve essere egualmente curato perché c'è una reciproca dipendenza. A questo proposito vorrei citare un esperimento fatto da alcuni ricercatori, negli Stati Uniti, che hanno fatto delle ricerche. Non sono praticanti buddhisti, ma scienziati che hanno fatto esperimenti su alcune piante, coltivate nello stesso modo, nello stesso terreno, con lo stesso concime, ma con un atteggiamento diverso: ad una pianta venivano rivolte parole dolci, si parlava in modo piacevole, mentre un'altra veniva insultata, offesa, sgridandola. Le due piante sono così cresciute in modo differente. La prima, che riceveva lodi e apprezzamenti, a cui venivano rivolte parole piacevoli, è cresciuta meglio dell'altra… Per cui, la nostra è un'esistenza basata sul sorgere dipendente, dove ogni singola vita dipende da altre vite. Questo vale anche per il rapporto fra noi e l'ambiente, per cui è naturalmente importante abbandonare il danneggiare anche l'ambiente. Parlando dell'azione non violenta, parliamo del senso di responsabilità e in relazione a questo, noi esseri umani abbiamo maggior responsabilità rispetti ad altri esseri, per esempio rispetto agli animali. Questo ultimi hanno minore responsabilità rispetto a quella che abbiamo - o dovremmo avere - noi umani verso le altre forme di vita e l'ambiente stesso. Perché non parliamo di responsabilità degli animali? Certo, anche loro ne hanno, ma qual è differenza fra noi esseri umani e gli animali? Fondamentalmente, non c'è differenza perché siamo tutti esseri senzienti, vi è però un diverso grado di intelligenza discriminante, c'è una diversa capacità, solo questo e, da questo punto di vista gli esseri umani sono avvantaggiati rispetto agli animali. Gli animali... osserviamo la differenza fra il loro comportamento e quello degli esseri umani. Questi ultimi, essendo dotati di una capacità di intelligenza superiore, in teoria dovrebbero comportarsi meglio degli animali, ma non sempre è così. Tante volte gli esseri umani si comportano peggio, perché gli animali, al massimo vanno a caccia quando hanno veramente fame e cercano cibo cacciando solo se è necessario, non cacciano certo per godimento, piacere, sport o passatempo. Quando hanno rapporti sessuali, è solo nel periodo di calore, per la riproduzione, altrimenti non vanno a cercare il piacere giorno e notte, in tutte le stagioni. Gli esseri umani fanno tutto questo. Si vantano della propria intelligenza, capacità superiore, ma la usano male e fanno troppe cose con furbizia e tante volte mancano di senso di responsabilità o di riguardo, attenzione verso le altre forme di vita e verso l'ambiente. Molte volte l'essere umano usa male, erroneamente la sua intelligenza, per cui procura tanta sofferenza sia a se stesso, sia nella famiglia in cui vive, nella società, arrivando a causare anche conflitti tra uno Stato e l'altro. Tutto ciò è una creazione umana, quindi da questo punto di vista gli esseri umani vivono peggio, fanno peggio degli animali. La visione e la nostra pratica relativa al sorgere interdipendente, sono qualcosa di estremamente importante, che può diventare un grande contributo non solo ad una ricerca di liberazione individuale dalle sofferenze: in realtà, noi praticanti del Sentiero Interiore, del Buddhismo, coltivando questa visione del sorgere interdipendente, della nostra esistenza, dell'ambiente, dovremmo concretamente contribuire - e possiamo farlo – a realizzare un grande beneficio per il mondo e per l'umanità. Con questo concludo il mio discorso. Grazie per l'ascolto.
Milano, 29 maggio 2010 [1] Secondo la visione del Buddhismo tibetano, le diverse scuole di pensiero buddhista sono classificate in quattro: Vaibhashika, Sautrantika, Cittamatra, Madhyamika (quest'ultima suddivisa in Madhyamika Svatantrika e Madhyamika Prasanghika) [2] Aggregati o skandha (sanscr.) - i cinque componenti psicofisici della persona: forma (corpo), sensazione, discriminazione, fattori composti e coscienza. [3] Erudito dell'Università monastica di Nalanda, vissuto nel VI secolo, autore di numerose opere e commentari sulla Madhyamika Prasanghika. |
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